Come accade di tanto in tanto mi sono trovato in una domenica di aprile a rovistare in un mercatino dell’usato fra pile di libri alla ricerca della parola Roma scritta sul dorso di un libro.
Mi muovevo a tentoni, come un ubriaco nella notte, fra pile disorganizzate di libri di ogni genere, dai fumetti alla narrativa, dai classici inglesi ingialliti con bordi mangiucchiati fino alle grandi enciclopedie ormai completamente fuori stagione, giganteschi volumi dalla copertina che ricorda vecchi bauli che conservavano corredi nuziali.
Giunto in fondo ad una pila trovo il legno su cui questa si appoggia e, sotto, una vetrinetta chiusa a chiave che conserva tre volumi ingombranti dal titolo: 7 anni di fotografie di guerra.
Chiedo di poter vedere i volumi anche se non hanno nulla a che vedere con la mia ricerca della parola Roma ma il titolo mi incuriosisce ed un lucchetto a tenerli protetti dietro un vetro mi ha ormai convinto.
La ragazza non nasconde lo stupore e mi sottolinea che da quando sono stati chiusi lì, qualche anno prima, nessun aveva mai chiesto di vederli.
Ora so che sto per riportare la luce su pagine che si sono tenute per mano l’una all’altra al buio per molto tempo e mi chiedo quanto altro tempo possa essere trascorso da che qualcuno li abbia sfogliati con interesse.
Aspetto distrattamente che la ragazza si allontani per aprire una pagina a caso del primo volume. Scelgo un punto imprecisato fra l’inizio e la metà del primo libro e subito mi ritrovo risucchiato in un vortice di meravigliosi scatti di una guerra di cui non so nulla. Sono tutti in bianco e nero e sono tutti scatti estremamente crudi e significativi di istanti che non sapevo fossero esistiti.
Per un lungo, interminabile, momento di grazia sfoglio quelle pagine come se ognuna fosse un’otre d’acqua fresca lungo un interminabile deserto. Mi colpisce un soldato che sta urlando ed umiliando un anziano giapponese completamente vestito di bianco, immacolato e dai tratti distesi e sereni malgrado la guerra lo circondi. Mi colpisce il cadavere di un bambino che, presumibilmente, ormai vive solo in quell’immagine, penso che probabilmente nemmeno la sua famiglia sia più in vita e per questo mi sento io l’unico al mondo a vederlo, ad incontrarlo, ancora per una volta, e poi, forse, nulla più.
Molti altri pensieri, almeno quante sono state le pagine e le fotografie che ho scorso, si sono accavallati senza darsi tregua, gli uni agli altri e alla fine l’unica cosa che mi chiedo è come sia possibile che il mondo non sia lì con me a gridare che questo tesoro non può andare perduto, che tutti dovrebbero vedere e provare le stesse emozioni che io ho provato ma mi rendo conto ancora una volta che non è e non sarà così.
Chi porta con sé una passione, come io porto con me la passione per la fotografia, ha un compito ed una responsabilità: sentire quello che altri non possono sentire, quella di fare, quindi, quello che è giusto fare e che altri non faranno: conservare, condividere, comunicare il valore che è insito in una fotografia, aiutare le persone che vogliono provare a sentire le stesse cose, tentare di aiutarle ad avvicinarsi per capire, vivere l’istante che è nella fotografia.
Alla fine ho alzato gli occhi dal libro ed ho trovato il mondo intorno a me esattamente come l’avevo lasciato prima di iniziare quel viaggio tra quegli scatti, in un istante ha ripreso a muoversi ed è tornato il sonoro. Mi sono guardato intorno, ho sentito equilibrio ed era un equilibrio sano in cui ognuno stava camminando la propria domenica come io la mia e così mi sono portato via quei libri.